La condotta di un dipendente, se ritenuta grave dal datore di lavoro o in contrasto con le norme disciplinari aziendali e quelle previste dal contratto, può portare al licenziamento.
Il licenziamento è uno degli eventi più gravi che possono colpire un lavoratore in quanto lo priva di un’occupazione e di un reddito. All’origine di un licenziamento possono esservi cause oggettive (crisi o esigenze di riorganizzazione aziendale) oppure cause soggettive, determinate dal comportamento del lavoratore durante l’orario di lavoro e, in alcuni particolari casi, anche al di fuori.
I riferimenti normativi che regolano la condotta del lavoratore sono rappresentati dalle norme del codice civile, dal codice disciplinare dell’azienda ove questo sia previsto, dai contratti collettivi nazionali o dal contratto di lavoro che lega lavoratore e azienda/datore di lavoro.
Accanto ai generici obblighi di fedeltà e diligenza cui tutti i lavoratori devono attenersi esistono norme di civile convenienza, regole relative agli orari e a tutti gli aspetti che riguardano la gestione del rapporto di lavoro, notoriamente basato su un vincolo fiduciario che si instaura tra datore di lavoro e dipendente.
Un lavoratore che non rispetti gli obblighi contrattuali o violi le norme del codice disciplinare o del contratto sottoscritto può essere fatto oggetto di una sanzione disciplinare che può andare da un semplice richiamo fino al licenziamento.
Si parla in questo caso di licenziamento disciplinare che si suddivide in licenziamento per giustificato motivo soggettivo e licenziamento per giusta causa.
Le due forme di licenziamento si differenziano per l’entità del comportamento messo in atto dal dipendente e per la gravità dell’inadempimento che si configura con la condotta dello stesso. Ognuna di queste forme ha procedure e conseguenze diverse.
Alla base dei licenziamenti disciplinari vi è sempre un inadempimento significativo degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore che finisce per ledere gli interessi del datore di lavoro e incrinare irrimediabilmente il rapporto fiduciario.
Un inadempimento rilevante che riguardi un dovere espressamente previsto dal contratto può portare al licenziamento per giustificato motivo soggettivo che viene applicato in tutti quei casi in cui la violazione non è però così grave da determinare un’immediata interruzione della prestazione lavorativa. Il datore di lavoro è infatti tenuto a rispettare un termine di preavviso stabilito dalla legge o dalla contrattazione (collettiva o individuale) e il lavoratore può continuare a lavorare fino a che il licenziamento non diventa effettivo.
È questa la prima grande differenza tra il licenziamento per giustificato motivo e il licenziamento per giusta causa che invece avviene senza preavviso, ovvero “licenziamento in tronco”, e determina l’immediata interruzione della prestazione lavorativa.
Non sempre tuttavia il licenziamento per giustificato motivo soggettivo viene comminato per sanzionare una condotta dolosa del lavoratore; può accadere infatti che venga intimato anche per negligenza o scarso rendimento, o ancora per il superamento dei giorni di assenza consentiti in caso di malattia. Si tratta, come già visto, di forme di inadempimento contrattuale non così gravi e non direttamente riconducibili a una volontà lesiva del lavoratore.
Altri casi di inadempimento che possono determinare un licenziamento per giustificato motivo soggettivo sono il mancato rispetto delle direttive di un superiore o del datore di lavoro, la falsificazione di dati o documenti aziendali o l’omissione di informazioni rilevanti.
Se il lavoratore ritiene illegittimo il licenziamento può reagire secondo quanto previsto dalla legge. Negli ultimi anni la normativa è stata modificata dal cosiddetto Jobs Act che ha introdotto alcune novità. Per chi è stato assunto prima del 7 marzo 2015, prima cioè dell’entrata in vigore della riforma, resta valido quanto previsto dallo Statuto dei Lavoratori.
Per chi è stato assunto dopo il 7 marzo 2015 in aziende che impiegano fino a 15 dipendenti l’eventuale illegittimità del licenziamento comporta la riassunzione del dipendente o il versamento di un risarcimento economico. Nelle aziende che impiegano più di 15 dipendenti vale quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori modificato nel 2012.
Il d.lgs 23/2015 (Jobs Act) ha poi introdotto una procedura semplificata di conciliazione che prevede l’immediato indennizzo del lavoratore da parte del lavoratore per evitare il procedimento di impugnazione.
Nei casi in cui il lavoratore si renda responsabile di condotte particolarmente gravi, commetta atti che violano norme del codice disciplinare, le leggi o anche le comuni regole di civile convivenza può incorrere nel licenziamento per giusta causa che presenta notevoli differenze rispetto al licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Innanzitutto occorre che il lavoratore abbia posto in atto un comportamento estremamente grave che costituisce un evidente inadempimento degli obblighi contrattuali, lede gli interessi del datore di lavoro o dell’azienda e incrina irrimediabilmente il rapporto fiduciario che normalmente dovrebbe sussistere tra datore di lavoro e dipendente.
Per tali motivi e per sanzionare la gravità del comportamento la legge prevede che tale licenziamento avvenga “in tronco”, vale a dire senza alcun tipo di preavviso nei confronti del lavoratore. Questo perché il comportamento messo in atto deve essere così grave da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro, anche per pochissimo tempo.
Il lavoratore che venga colpito da tale provvedimento dovrà infatti interrompere immediatamente la propria prestazione lavorativa.
Anche in questo caso la legge non prevede una casistica esplicita, anche se la giurisprudenza negli anni ha definito una serie di atti e comportamenti che possono portare al licenziamento per giusta causa.
Come detto però deve trattarsi di fatti gravi. È il caso, ad esempio, di un dipendente che reagisce alle direttive di un superiore o del datore di lavoro con violenza, verbale o fisica. Anche il dipendente che ruba sul posto di lavoro, che si assenta senza giustificazione dal lavoro o che falsifica i permessi potrà essere sanzionato con il licenziamento per giusta causa.
Esiste poi un caso particolare nel quale anche i fatti commessi al di fuori del luogo e dell’orario di lavoro possono configurare una giusta causa di licenziamento. Si pensi a un dipendente che viene condannato per un reato. In questo caso l’azienda o il datore di lavoro possono ritenere che la condotta del dipendente, seppure commessa al di fuori del contesto lavorativo, sia lesiva dell’immagine e del prestigio dell’azienda e procedere al licenziamento per giusta causa.
Nonostante il datore possa licenziare senza preavviso la legge prevede comunque che invii al dipendente da licenziare una comunicazione scritta nella quale devono essere contestati i fatti che lo hanno indotto a scegliere la strada del licenziamento. Tra la contestazione e il provvedimento vero e proprio devono trascorrere almeno cinque giorni.
Il lavoratore può impugnare il licenziamento comunicando, anche in questo caso per iscritto al datore, la propria volontà. Questa procedura deve essere attivata entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento. Prima di adire le vie legali e rivolgersi al tribunale del lavoro il dipendente licenziato può proporre una conciliazione o un arbitrato. Nel caso in cui non si giunga a un accordo il lavoratore avrà 180 giorni per rivolgersi al giudice e depositare il ricorso presso la cancelleria del tribunale.
Puoi approfondire il tema nella sezione dedicata: Il licenziamento per giusta causa: procedure e modalità
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