Quando un lavoratore incorre nel rischio di essere licenziato per giusta causa? Quali limiti e requisiti deve rispettare il datore di lavoro nell’intimare il licenziamento in tronco? Quando il licenziamento è illegittimo?
Il licenziamento per giusta causa è la sanzione più severa per un lavoratore dipendente. Un provvedimento senza appello cui il datore di lavoro può ricorrere quando una condotta particolarmente grave del dipendente ha fatto venire meno un interesse allo svolgimento della prestazione lavorativa.
La legge italiana prevede due tipologie di licenziamento per motivi disciplinari: per giustificato motivo soggettivo e giusta causa. Il primo tipo di sanzione viene previsto per quelle forme di inadempimento non particolarmente gravi o tali comunque da non richiedere un’immediata interruzione del rapporto di lavoro. Il licenziamento per giusta causa può colpire il dipendente qualora questi si renda responsabile di condotte particolarmente gravi, non soltanto e non necessariamente sul posto di lavoro (si pensi a una condotta penalmente rilevante tenuta al di fuori dell’orario e del luogo di lavoro che può cagionare un danno di immagine e reputazione all’azienda) tali da costituire un inadempimento evidente degli obblighi contrattuali.
L’interesse tutelato non è soltanto il diritto del datore di lavoro a ricevere una prestazione lavorativa coerente con quanto previsto dal contratto e accettato dal lavoratore alla firma dello stesso, quanto anche la fiducia che sta alla base del rapporto. Un comportamento particolarmente grave del lavoratore incrina questo vincolo fiduciario, inducendo in molti casi il datore di lavoro a scegliere la strada del licenziamento per giusta causa che, a differenza del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, avviene “in tronco”, vale a dire senza alcun tipo di preavviso.
Attraverso il potere disciplinare la legge riconosce al datore di lavoro il diritto di tutelare e preservare l’organizzazione aziendale da turbative, assicurando il rispetto degli obblighi contrattuali sottoscritti dal lavoratore. Tale potere trova il proprio fondamento nel principio di subordinazione tipico del contratto di lavoro e si manifesta attraverso l’irrogazione di sanzioni disciplinari, tra le quali il licenziamento è la forma più grave e severa.
Il fatto che il licenziamento per giusta causa non preveda alcun tipo di preavviso e possa avvenire in tronco non esenta il datore di lavoro dal rispetto di una precisa procedura prevista dalla legge per l’intimazione del licenziamento al lavoratore.
Come abbiamo visto, il licenziamento per giusta causa viene determinato dal verificarsi di una condotta particolarmente grave che costituisce inadempimento dei doveri contrattuali da parte del lavoratore. L’art. 7 della legge 300/1970, meglio conosciuta come “Statuto dei Lavoratori”, impone che l’eventuale codice disciplinare cui il lavoratore deve attenersi sia portato a sua conoscenza o che sia facilmente conoscibile (ad esempio perché affisso all’interno dell’azienda), anche se negli anni la giurisprudenza ha ritenuto come motivazioni per il licenziamento in tronco anche comportamenti non espressamente sanzionati dalla disciplina aziendale e previsti dalle norme dei contratti collettivi o dalle regole della civile convivenza.
Quando il lavoratore pone in essere una condotta grave e sanzionabile da parte dell’azienda, il datore di lavoro può procedere al licenziamento per giusta causa. Tale iter deve essere avviato mediante l’invio al dipendente di una comunicazione in forma scritta nella quale devono essere contenute le motivazioni che hanno indotto il datore a procedere al licenziamento e quindi i dettagli del comportamento contestato al lavoratore.
Questa contestazione ha il preciso scopo di portare a conoscenza del dipendente la sua situazione e consentirgli di opporsi al provvedimento presentando uno scritto difensivo nel quale espone la sua versione dei fatti. La legge impone la forma scritta prevedendo inoltre la nullità del licenziamento intimato in forma orale che non consentirebbe al lavoratore di difendersi dalle accuse che gli sono state mosse.
L’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori prevede che tra la contestazione – che deve essere inviata al lavoratore mediante raccomandata con ricevuta di ritorno – e l’adozione del provvedimento debbano trascorrere almeno cinque giorni.
È molto importante che il datore di lavoro rispetti questa procedura perché il mancato rispetto delle prescrizioni di legge lo espone al rischio di illegittimità del licenziamento.
La contestazione da parte del lavoratore deve rispettare inoltre il principio di specificità, non può quindi essere generica, non può essere vaga o contenere riferimenti confusi ai fatti contestati ma deve poter essere ricondotta a fatti concreti, circostanziati e circoscritti nel tempo. In questo la legge si preoccupa di tutelare il lavoratore perché un addebito che non fosse sorretto da tali requisiti lo priverebbe di avere una conoscenza adeguata delle accuse.
La giurisprudenza ha inoltre individuato un ulteriore requisito, necessario per la validità della sanzione disciplinare. Si tratta dell’immodificabilità del contenuto della contestazione; il datore di lavoro non può comminare una sanzione disciplinare per motivi diversi da quelli indicati nella comunicazione scritta inviata al dipendente o per fatti ulteriori che vengono contestati soltanto nel momento della sanzione. Qualora il datore non rispettasse tale requisito il licenziamento sarebbe illegittimo.
Come prima forma di reazione al licenziamento per giusta causa il lavoratore ha la possibilità di presentare uno scritto difensivo nel quale espone le sue ragioni circa gli addebiti che gli sono stati contestati. Valutata la memoria difensiva del lavoratore il datore di lavoro potrà decidere se procedere comunque al licenziamento o se applicare una sanzione disciplinare più tenue.
Qualora la difesa del lavoratore non sortisca effetti questi avrà la possibilità di opporsi al licenziamento seguendo un iter preciso. Dovrò innanzitutto impugnare, entro il termine di 60 giorni – calcolati dal giorno in cui riceve o viene messo a conoscenza del provvedimento, o dei motivi che lo hanno determinato – il licenziamento. Il dipendente dovrà comunicare al datore l’intenzione a voler procedere alla contestazione. La legge, a questo punto, fissa un termine di 180 giorni a disposizione del lavoratore per depositare il ricorso presso la cancelleria del tribunale e quindi adire le vie legali dinanzi al giudice del lavoro o inviare al datore una richiesta di conciliazione di fronte alla direzione provinciale del lavoro o di arbitrato. In queste pratiche il lavoratore può farsi assistere da un legale o dall’organizzazione sindacale di categoria cui è iscritto.
Il tentativo di conciliazione o l’arbitrato possono concludersi con esiti diversi. Se il datore di lavoro respinge la conciliazione o se non viene raggiunto un accordo tra le parti il dipendente avrà 60 giorni per depositare il ricorso al giudice del lavoro.
L’onere della prova dei fatti che costituiscono oggetto della contestazione e che hanno portato al provvedimento del licenziamento grava sul datore di lavoro. È infatti quest’ultimo a dover dimostrare che i fatti contestati sono avvenuti e che configurano una violazione del codice disciplinare, delle norme contrattuali o delle regole della civile convivenza.
Il lavoratore, per parte sua, avrà soltanto l’onere di provare che i fatti contestati non sono avvenuti e che l’accusa del datore di lavoro non sussiste, ovvero di dimostrare che il licenziamento è nullo in quanto viziato nella forma; è il caso del licenziamento intimato in forma orale o con una comunicazione scritta che non riporta con precisione i fatti contestati.
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