Un lavoratore può essere licenziato per crisi o riorganizzazione dei processi aziendali, per la propria condotta, per malattia o invalidità
Le crisi economiche, le riforme del mercato e della legislazione sul lavoro che si sono susseguite negli ultimi decenni hanno radicalmente rivoluzionato l’istituto del licenziamento, eliminando di fatto il principio di intangibilità del posto di lavoro.
Tuttavia un datore di lavoro non può liberarsi arbitrariamente di un proprio dipendente ma potrà farlo solo al verificarsi di condizioni che sono indicate dalla legge per categorie (i singoli casi possono invece essere tantissimi e tali da non poter trovare una precisa previsione normativa).
In ogni caso il licenziamento interrompe il rapporto di lavoro e può spesso dare il via a delicati contenziosi legali tra le parti. Le norme cardine della disciplina del lavoro sono costituite dall’art. 2119 c.c. e dalla legge 604/1966 le quali stabiliscono che un dipendente può essere licenziato soltanto per giusta causa o giustificato motivo.
Il dipendente può incorrere nel licenziamento per giusta causa qualora si renda responsabile di una condotta che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.
La dottrina e la giurisprudenza prendono in considerazione, come cause di recesso dal contratto di lavoro, non soltanto i gravi comportamenti che rilevino dal punto di vista disciplinare nell’espletamento delle mansioni, ma anche eventuali fatti e condotte avvenute al di fuori dell’orario e dell’ambiente di lavoro ma suscettibili di riflettersi sull’azienda e sulla sua immagine, minando la fiducia posta alla base del rapporto tra datore e dipendente.
L’articolo 2119 c.c. stabilisce che l’interruzione del rapporto di lavoro possa avvenire senza necessità di preavviso: è quello che viene definito “licenziamento in tronco”. Per la sua natura di sanzione disciplinare, il licenziamento per giusta causa costituisce l’extrema ratio nel rapporto di lavoro e deve essere preceduto dall’attivazione di un obbligatorio procedimento disciplinare e della preventiva comunicazione delle “contestazioni di addebito” al dipendente per garantirgli il diritto alla difesa.
Altre cause di licenziamento per giusta causa potrebbero rientrare nell'ambio del licenziamento per uso improprio dei beni aziendali. L’utilizzo di strumenti aziendali, che si tratti di auto, fax, mail, stampanti, cellulare o computer per scopi estranei a quelli dell’ente o dell’azienda può essere motivo licenziamento per giusta causa.
Accanto alla giusta causa la legge italiana prevede anche il giustificato motivo tra le condizioni cui è subordinato il licenziamento individuale. Il giustificato motivo soggettivo è di natura disciplinare ed è previsto dalla legge 604/1966, quello oggettivo è invece legato all’organizzazione aziendale e trova la sua fonte nella legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori).
Il giustificato motivo soggettivo è la seconda forma di licenziamento disciplinare prevista dal nostro ordinamento, prevista per quei comportamenti del dipendente che non siano così gravi da integrare l’immediata interruzione del rapporto di lavoro.
Il lavoratore può incorrervi ad esempio per gravi inadempimenti contrattuali, condotte violente nei confronti dei propri responsabili, l’assenza ingiustificata o una violazione qualsiasi del codice disciplinare adottato dall’azienda, di cui il dipendente deve aver preso visione. A differenza del licenziamento per giusta causa richiede che il datore fornisca al dipendente un preavviso. Il lavoratore potrà continuare a lavorare per il periodo di tempo residuo e avrà diritto ad essere regolarmente retribuito.
Al preavviso entrambe le parti possono decidere di rinunciare ma in tal caso il datore dovrà corrispondere un’indennità sostitutiva e il rapporto si interromperà immediatamente.
La legge prevede, anche in questo caso, che le contestazioni di addebito siano formulate per iscritto dal datore di lavoro al dipendente, invitando quest’ultimo a presentare le proprie giustificazioni. La sanzione disciplinare, di cui il licenziamento è una forma, dovrà essere irrogata non prima che siano decorsi 5 giorni dalla contestazione.
La tipologia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dipende da condizioni “inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Vi sono pertanto ricomprese tutte quelle motivazioni che derivano da ragioni economiche (ad esempio una crisi che comporti la contrazione dei volumi d’affari o determini la chiusura di reparti o dell’azienda) e da ragioni produttive (riorganizzazione, riassetto aziendale).
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L’introduzione di macchine, l’automazione dei processi in precedenza svolti dal personale, la riorganizzazione di reparti, uffici o linee produttive può legittimare il datore di lavoro a licenziare quei lavoratori che siano diventati superflui o improvvisamente improduttivi. Anche il dipendente che sia stato assunto nell’ambito di un ampliamento o di una diversificazione della produzione, successivamente rivelatasi poco proficua potrà essere legittimamente licenziato.
Con una sentenza del 2016 la Cassazione ha inoltre riconosciuto al datore di lavoro il diritto di procedere al licenziamento anche laddove la riduzione del personale sia dettata unicamente dal conseguimento del mero profitto o dalla necessità di contenere costi e spese.
A partire dal 2012 sono stati considerati come casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche la malattia e l’invalidità sopraggiunta.
L’azienda o il datore di lavoro possono procedere al licenziamento individuale anche per malattia, ma in questo caso la legge pone come limite il rispetto del cosiddetto “comporto”, periodo durante il quale il dipendente ha diritto alla conservazione del posto di lavoro, così come stabilito dall’art. 2110 c.c.
Scaduto il periodo di comporto l’azienda può procedere al licenziamento, comunicando al dipendente la decisione in forma scritta e indicando i singoli giorni di assenza oppure mantenere il lavoratore in forza.
I dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato hanno diritto a un preavviso temporale tra la data di comunicazione della cessazione del rapporto di lavoro e l’ultimo giorno di lavoro per consentire loro di cercare un’altra occupazione. L’azienda che non osservi il preavviso dovrà corrispondere un’indennità sostitutiva pari alla retribuzione che sarebbe spettata al dipendente se fosse stato rispettato il preavviso.
Nel caso degli impiegati la durata del periodo di comporto è stabilita dalla legge e dai CCNL; nel caso le norme prevedano durate diverse viene applicata quella più favorevole al lavoratore. Per gli operai vale soltanto quanto fissato dal CCNL.
Durante il periodo di comporto il lavoratore può essere licenziato soltanto per giusta causa o giustificato motivo dovuto alla sopravvenuta impossibilità della prestazione o alla totale cessazione dell’attività d’impresa.
Con riferimento ai malati cronici, la cui presenza sporadica in azienda potrebbe inficiare i ritmi o i processi produttivi, rallentare o bloccare l’attività costringendo l’azienda ad assumere un sostituto la Cassazione ha stabilito, con diverse sentenze, che il lavoratore può essere licenziato anche prima della scadenza del periodo di comporto.
Il licenziamento è illegittimo se la malattia deriva o è stata aggravata dalle condizioni o dalle mansioni svolte o dall’ambiente di lavoro.
Un particolare caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è quello che riguarda la condizione di invalidità sopraggiunta, intendendo con essa una disabilità che colpisce un dipendente che alla stipula del contratto di lavoro era in buone condizioni di salute.
Il licenziamento in questo caso è possibile soltanto se per il datore risulta impossibile destinare il dipendente a una mansione equivalente o inferiore all’interno dell’azienda (il cosiddetto repechage) mantenendo lo stesso livello retributivo.
La normativa cambia se l’inabilità sopraggiunta riguarda un dipendente già portatore di handicap. Una sentenza della Cassazione ha infatti stabilito che in questo caso il licenziamento è legittimo soltanto se il lavoratore ha perso totalmente la sua capacità di lavorare. L’incapacità non potrà tuttavia essere valutata arbitrariamente dal datore di lavoro, bensì accertata da un’apposizione commissione medica.
Fonti normative:
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