In quali casi le assenze dal posto di lavoro possono condurre al licenziamento del dipendente?
Il rapporto di lavoro subordinato si basa fondamentalmente su un vincolo fiduciario che si instaura tra il datore di lavoro e il lavoratore dipendente. Quando tale vincolo viene incrinato da un comportamento del dipendente possono crearsi gli estremi per una procedura di licenziamento per giusta causa, che porta all’immediata interruzione del rapporto di lavoro.
Il licenziamento per giusta causa, la forma più grave di licenziamento disciplinare, è disciplinato dall’art.2119 del codice civile che prevede questa possibilità nel caso in cui si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. È quanto succede quando un dipendente commette un atto o tiene una condotta talmente grave da costituire un significativo inadempimento degli obblighi contrattuali. L’inadempimento, in questi casi, mina alla base il rapporto fiduciario tra dipendente e datore di lavoro, ledendo un interesse di quest’ultimo che potrebbe non ritenere più profittevole la prestazione lavorativa offerta dal dipendente.
Un dipendente che si assenta dal posto di lavoro deve fornire una giustificazione e comunicare tempestivamente la sua assenza al datore di lavoro a meno che non si tratti di una ragione improvvisa (un lutto, un incidente o una malattia improvvisa).
Qualora non ci sia una giustificazione all’assenza del dipendente questi commette un illecito disciplinare e si espone a una serie di sanzioni che possono arrivare fino al licenziamento.
Il dipendente, come già visto, è tenuto a rispettare una serie di obblighi sanciti dal contratto e a fornire puntualmente la prestazione lavorativa per la quale è stato assunto. Risulta quindi evidente che un’assenza dal posto di lavoro possa creare problemi organizzativi per le aziende e per i datori di lavoro che si trovano improvvisamente privati di risorse importanti o, nel caso di servizi essenziali, possono trovarsi costretti a sostituire il dipendente assente.
Esistono tuttavia casi in cui l’assenza dal posto di lavoro ha una giustificazione e quindi il lavoratore è pienamente legittimato a non svolgere la sua prestazione; è il caso delle assenze per malattia.
Quando, al contrario, non vi è alcuna giustificazione per l’assenza il dipendente si espone al rischio di essere licenziato per giusta causa.
Solitamente l’assenza viene utilizzata dal lavoratore in modo strumentale per poter svolgere un secondo lavoro o per prolungare periodi di ferie, ponti festivi o weekend.
Recentemente la Cassazione ha stabilito, con la sentenza 10855/2020, che l’assenza ingiustificata, soprattutto se protratta nel tempo, configura una condotta contraria ai doveri fondamentali del lavorare. Non presentarsi al lavoro lede il cosiddetto “minimo etico”, ovvero si viola l’obbligo minimo che ci si assume con la firma del contratto di lavoro subordinato.
La Cassazione ha inoltre ritenuto non necessario che le conseguenze dell’assenza siano indicate dal codice disciplinare aziendale, proprio perché la presenza sul posto di lavoro costituisce uno dei requisiti minimi che il lavoratore è tenuto a rispettare.
Rappresenta una forma di assenza ingiustificata anche il rifiuto, da parte del lavoratore, di prendere servizio in una nuova sede in seguito a un trasferimento. Anche nel caso in cui il datore di lavoro non conceda un permesso che spetterebbe di diritto al lavoratore questi non può assentarsi comunque dal posto di lavoro ma avrà facoltà di rivolgersi al giudice.
Che cosa succede invece se il dipendente usa l’assenza come forma di rivendicazione nei confronti di un datore di lavoro che non versa gli stipendi? Nel caso di significativi ritardi che costituiscono, da parte del datore, un grave inadempimento degli obblighi contrattuali il dipendente può, previo invio di una diffida al versamento degli stipendi, comunicare di volersi astenere dalla prestazione lavorativa e segnalare altresì la propria assenza a motivo della mancata corresponsione degli stipendi. In caso contrario si esporrà al rischio di licenziamento.
Il nostro ordinamento, in materia di licenziamento disciplinare, prevede due tipologie che si differenziano per l’entità dell’inadempimento messo in atto dal dipendente con la sua condotta.
Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo può essere intimato quando il lavoratore si rende responsabile di una condotta illecita, lesiva degli interessi dell’azienda e del datore di lavoro, che non sia però così grave da rendere necessaria un’immediata interruzione del rapporto di lavoro e della prestazione.
Il lavoratore incorre invece nel rischio di essere licenziato per giusta causa quando è autore di una condotta particolarmente grave che costringe il datore di lavoro a interrompere immediatamente il rapporto, ovvero “in tronco”, senza alcun tipo di preavviso.
L’assenza ingiustificata in quale delle due fattispecie ricade? Si potrebbe dire che è possibile ricorrere a una qualsiasi delle due forme di licenziamento disciplinare ma occorre fare delle distinzioni.
Il lavoratore può essere licenziato per giustificato motivo soggettivo quando l’assenza è protratta nel tempo, ad esempio per un tempo eccedente i giorni di assenza concessi per la malattia, il cosiddetto “periodo di comporto”. In questo caso l’inadempimento non è necessariamente dovuto al dolo del lavoratore ma il datore di lavoro può perdere interesse alla prestazione lavorativa. Si pensi a un lavoratore che a causa di una malattia, una volta superato il periodo di comporto, sia assente in modo intermittente.
Il quadro cambia se l’assenza ingiustificata viene aggravata dalla condotta fraudolenta del lavoratore. Si pensi al lavoratore che fornisce giustificazioni false o non veritiere per l’assenza, al dipendente che risulta assente e svolge un altro lavoro o un’altra attività o a quello che utilizza l’assenza come forma di sgarbo nei confronti di un datore di lavoro.
In tutti questi casi il lavoratore mette in atto una condotta particolarmente grave che costituisce un inadempimento significativo del contratto di lavoro, incrina il vincolo fiduciario instaurato con il datore di lavoro e si espone quindi al rischio di essere licenziato per giusta causa.
Il fatto che un dipendente si assenti spesso, ad esempio, per malattia non costituisce un motivo valido per licenziarlo. L’assenza può costituire giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento solo in alcuni casi.
Un dipendente colpito da malattia, costretto ad assentarsi dal posto di lavoro ha una giustificazione valida e l’ordinamento giuridico italiano in materia di lavoro ne tutela il diritto al mantenimento del posto di lavoro, seppure con dei limiti. La legge italiana o i Contratti Collettivi Nazionali applicati a determinati settori professionali prevedono infatti il cosiddetto “periodo di comporto”, un periodo durante il quale il dipendente assente per malattia non può essere in alcun modo licenziato dal datore di lavoro. Il licenziamento che avviene durante la malattia o comunque quando non è ancora stato superato il periodo di comporto è da considerarsi nullo.
Quando il periodo di comporto termina il datore di lavoro non è automaticamente obbligato a licenziare il dipendente ma ne ha facoltà. La legge rimette quindi alla sua discrezione il licenziamento. Questo perché il licenziamento può trovare giustificazione soltanto nel caso in cui l’assenza del dipendente oltre il periodo di comporto arreca un danno economico o organizzativo al datore di lavoro, facendo venire meno il suo interesse nei confronti della prestazione lavorativa offerta dal dipendente.In questo caso il licenziamento avviene per giustificato motivo soggettivo non costituendo l’assenza una scelta del lavoratore quanto più una causa di forza maggiore.
Inoltre la giurisprudenza afferma che lo svolgimento di un’attività lavorativa alternativa durante la malattia costituisce una giusta causa di licenziamento perché, con il suo comportamento, il dipendente:
Per procedere con il licenziamento per giusta causa l’azienda dovrà:
La legge e la giurisprudenza richiedono, che la motivazione riportata nella lettera di licenziamento sia effettivamente reale e sussistente e non solo un pretesto per liberarsi del dipendente. Ciò significa che l’azienda deve essere in grado di dimostrare il fatto che ha descritto nella contestazione disciplinare e che ha portato al licenziamento del dipendente.
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